Dato l’apprezzamento mostrato da molti per un mio vecchio racconto, ne sono andato a pescare un’altro. Anche questo ha più di una quindicina d’anni, ma bando alle ciance.
BUONA LETTURA
1.
Poi c’è un’antica lampada di bronzo ad olio… un panno per lucidare… il Genio… il dilemma…
Sei certo di sapere cosa vuoi veramente?
Se tu potessi esaudire un desiderio, uno soltanto, quale sarebbe?
Io desideravo la solitudine. Fare silenzio intorno a me per avere silenzio dentro di me. E poter finalmente ascoltare quel suono d’ocarina. Quella melodia che ho solo intuito in lontananza tra le dune di sabbia leggera e bianca, che contrastano con il blu limpido del cielo nel mio mondo dentro.
Ascolta… fai tacere la voce e ascolta la tua ossessione…
Un lampo di luce colorata mi colpì in pieno volto: avevo solo nove anni. I fedeli, riuniti nella chiesa del paese, erano raccolti in silenziosa penitenza: mento al petto, mani giunte. Solo qualche scricchiolio dal legno antico e tarlato delle panche. Mi sono voltato per osservare dalla prima fila tutti quei colli chini. Lo facevo spesso, amavo andare nelle prime file per questo. Lo facevo anche al cinema. Effetto surreale tutte quelle teste ordinate, decine e decine, tra i lampi cromatici riflessi dal grande schermo. In chiesa era diverso, ma non meno surreale. Un raggio di sole attraversò una delle finestre, rotonda come un oblò di nave, dai vetri di mosaico colorati. Il raggio raccolse i colori del vetro e mi trafisse le pupille proiettandoli nel mio mondo dentro. In quel istante, all’età di nove anni, sentii per la prima volta l’ocarina.
Quando riaprii gli occhi ero sul pavimento, soffocato dalle facce rosse delle persone che si accalcavano intorno a me. Avevo la bocca piena di bava densa, la testa che ronzava e un senso di infinita spossatezza. Pian piano mi resi conto che me l’ero anche fatta addosso… e che stavo ancora in chiesa.
2.
Esprimi il tuo desiderio, ma bada bene: lo esaudirò!
Sale, sabbia, cocco: tutto quanto ha il sapore e l’odore di una di queste cose o di tutte e tre messe insieme. Non c’è altro. Ormai non so più da quanto tempo.
La pioggia torrenziale di questi ultimi giorni è stata una benedizione – da un lato – e ha dall’altro messo a dura prova il mio rifugio, che però ha retto bene: ho dovuto rincorrere il telo di copertura ricavato da una vela solo un paio di volte. Poi l’ho fissato meglio. Ho imparato.
Mi ci voleva proprio dell’acqua dolce, credo che il latte di cocco mi stia squagliando la flora batterica intestinale, e poi, non ne posso più del suo sapore dolciastro. Con la pioggia ho riempito tre taniche che ho seppellito nella sabbia, all’ombra, e una borraccia, comoda da portarmi appresso nelle esplorazioni.
Un piccolo porto deserto… il pontile di vecchie assi di legno nero, scricchiolanti e scivolose per la pioggerella fitta… odore di muffa e acqua salmastra… baracche scure e deserte sullo sfondo, gocciolanti, ordinate, con lo sguardo chino… Nessuno ti sta salutando eppure, tu parti lo stesso…
Appena il sole riesce a trafiggere la coltre di nubi cariche d’acqua e il cielo si apre un po’, la sabbia si asciuga in un battibaleno e torna bianca e scintillante come zucchero raffinato. L’aria si riscalda e l’acqua caduta tenta di ritornare da dove è venuta.
Il vento costante fa sì che la temperatura sia sopportabile, ma devo stare attento a non lasciarmi fregare, come i primi tempi, e rischiare un’ustione o un’insolazione. Il vento sale dal mare e vola verso il centro dell’isola, sulla collina coperta di vegetazione. Soffia ininterrottamente giorno e notte. La voce del vento non cessa mai. Ma l’ocarina qui è decisamente più vicina e mi sussurra sempre più spesso. Niente svenimenti ne convulsioni, sembra che non ce ne sia più bisogno.
Riesco a fare silenzio, fuori e dentro, con maggior facilità, soprattutto al tramonto, quando il cielo si infiamma all’orizzonte, il vento cala, e gli animali tacciono…
in raccoglimento, con il capo chino, come in chiesa..
.
mi siedo nella sabbia tiepida che si colora di rosa, rivolto al mare…
amo stare in prima fila…
e ascolto la melodia che mi accompagna dentro con una carezza. E tutto è silenzio…
3.
L’isola pullula di strane forme di vita. Non che io sia un esperto in materia, ma ho incontrato animali che credo vivano solo qui: insetti, molluschi, anfibi dalle forme e colori che definire alieni non è un’esagerazione. Ma, come dicevo, la mia cultura in tal senso è limitata a qualche documentario naturalistico guardato con distrazione e poco altro. Se dovessi definire questo luogo lo chiamerei l’isola del “quasi-come”. Le cose qui sono quasi-come quelle che ci sono in tutti gli altri posti del mondo, ma hanno un che di diverso. Il verde delle piante, per esempio, non è proprio verde, come uno se l’aspetterebbe, è un quasi-verde: ha delle sfumature, delle ombreggiature – non saprei come altro definirle – di colori differenti. Alle volte tende al viola, alle volte all’arancione, pur restando sempre e comunque verde. Persino le rocce, almeno quelle che mi sono soffermato ad osservare con più attenzione, hanno sempre qualcosa che non quadra: alle volte il peso, alle volte la forma, altre volte la consistenza o la sensazione che si prova nel toccarle. Insomma, anche se uno non è un geologo, un biologo o che diamine, ha in sé un’idea di come le cose dovrebbero essere, seppur vaga, ma comunque sufficiente a capire se si è di fronte ad un’anomalia. Mi preoccupa la considerazione che tanto più si è inesperti tanto più l’anomalia deve essere eclatante affinché la si possa notare. E qui tutto mi pare “anomalo”.
Loro sono arrivati dopo di me. Forse una settimana più tardi. Non avevo mai sentito parlare di uccelli come quelli. Ricordano in tutto e per tutto i comuni passeri, ma non credo siano passeri. Loro “mormorano”: non cinguettano, non cantano o fischiettano, no, emettono un suono come un mormorio di persone. Uno stormo di migliaia di individui che mormorano all’unisono…
silenzio… tacete! Peccato tu abbia sprecato il tuo desiderio… perché l’hai già espresso, vero?
Si sistemano sulle palme e mi fissano con grandi occhi neri piegando il capo da un lato e dall’altro, come se mi ascoltassero. I quasi-passeri osservano me e io osservo loro. Cerco di capire dove facciano i loro nidi, integrare la mia dieta con le uova non sarebbe male. Ma questa non deve essere stagione di accoppiamento, quindi niente nidi e niente uova, anzi, quasi-uova.
Credo che gli unici nemici naturali che questi uccelli abbiano, fatta eccezione per il sottoscritto, siano una specie di ragno peloso violaceo, dalle notevoli dimensioni, e una biscia piccolissima, di un rosso vivo e con gli occhi gialli e neri che ho visto una volta serpeggiare in alto sulle foglie delle palme. Il colore rosso vivo del serpentello mi inquieta. Solitamente gli animali come quello, dai colori accesi e vistosi, sono pericolosi. Ricordo una raganella… forse del Sud America, rossa anche lei, talmente velenosa che basta toccarla per restarci secchi. E’ come se dicessero: «Hei! Guardami Amico. Meglio starmi alla larga. Non ho affatto paura di mettermi in mostra, ergo; devo essere molto, ma molto pericolosa!»
Credo che a scanso di equivoci resterò lontano dal rosso serpentello dagli occhi gialli.
Per quanto riguarda il grosso aracnide credo non sia velenoso: la sua arma è una stretta micidiale, una specie di quasi-ragno constrictor. Ho visto alcuni esemplari cacciare granchi; saltargli addosso dal colmo di una roccia, con le robuste zampe nodose aperte in volo, richiuderle con impressionante velocità sopra il malcapitato, come fossero una specie di tagliola, stritolandolo letteralmente. Schiantando il carapace con la facilità con cui si rompe la crosta caramellata della crema catalana con la punta del cucchiaio. Che roba! Non c’è dubbio che quelli siano ragni, ma non mi pare di aver mai visto una tecnica di caccia simile. Diciamo che, pur non essendo velenosi non cercherò la loro compagnia. Forse sono buoni da mangiare, in fondo si nutrono di granchi, e quelli piacciono anche a me, per la proprietà transitiva del detto “sei ciò che mangi…”, uno più uno fa due.
Qui, dove ho sistemato il mio rifugio, incontro raramente gli animali e gli insetti. Ma se mi addentro oltre il limitare della vegetazione le forme di vita brulicano ovunque.
Comunque non credo ci siano mammiferi sull’isola, a parte me ovviamente; forse nell’entroterra, ma ne dubito. Per ora ho esplorato le coste, con pochissime puntate all’interno, la vegetazione è troppo fitta e mi mette a disagio. Di quando in quando, soprappensiero, mi sorprendo a rimirare il colmo della collina, al centro dell’isola…
… la melodia fluttua nell’aria, portata dal vento
rimango come imbambolato.
Prima o poi ci andrò, non c’è fretta. Certo è che qui il tempo non manca.
4.
La vita deve pur avere uno scopo. La tua vita deve avere senza dubbio un senso. Però non è detto che lo si scopra mai. E non è nemmeno detto che questo ci piaccia, nell’improbabile eventualità lo si scopra. Magari è una cosa totalmente priva di senso per noi, dato che non si è in grado di vedere il quadro generale, il “disegno” complessivo del “tutto”.
Giri frettolosamente un angolo e urti un tale al quale cadono di mano dei fogli. Indispettito si china a raccoglierli mentre tu ti profondi in scuse e cerchi di aiutarlo meglio che puoi. Ecco, il senso di tutta la tua esistenza potrebbe essere in quel evento: rallentare il tale Pinco Pallino. Fargli perdere almeno un minuto. Dopo averlo aiutato a risistemare i sui effetti, avvolto in una nube d’imbarazzo, ti congedi riprendendo la tua strada e non saprai più nulla di quel tizio. Non saprai mai che più avanti un ubriaco sbanderà e uscirà di strada finendo sul marciapiede e schiantandosi contro un lampione. Non vedrai il tale con il fascio di fogli sotto il braccio arrivare sul luogo dello schianto esattamente un minuto dopo l’incidente. Non saprai mai che su quei fogli che l’hai aiutato a raccogliere ci sono informazioni importanti destinate a migliorare la vita di tutti quanti, che non sarebbero mai arrivati a destinazione se quel tale che ti ha maledetto per averlo urtato fosse morto, schiacciato da un’auto guidata da un ubriaco uscito di strada.
Non lo saprai mai.
C’è troppo rumore in questa città… in questa casa… questa donna è troppo chiassosa… non riesco ad ascoltare. Perché continuate a distrarmi con cose inutili?
Ho caricato il mio catamarano e sono salpato da un solitario porticciolo. Non ho detto niente a nessuno: né a mia moglie, né al mio capo, né ai miei colleghi; né al mondo, il cui rumore non potevo più sopportare.
Mentre uscivo dalle acque calme del porto ed entravo nell’oceano mi sono voltato: gli alberi delle poche barche ormeggiate oscillavano facendo tintinnare le funicelle metalliche…
Addio! Addio! …Il centro, il centro è l’origine… la luce nel cerchio è musica…
Non c’è stato mai nulla di più malinconico di quel momento. La pioggia sottile, vaporosa, mi bagnava il volto, nascondendo le lacrime che ora mi solcano le guance abbronzate.
Cerchi il senso della tua vita? Ne sei certo? Fai attenzione, perché potresti trovarlo…
uno solo, hai un solo desiderio, pensaci bene!
Cerchi il silenzio per andare dentro, per indagare sul significato, ma non hai i mezzi, non puoi vedere il disegno nella sua interezza… a meno che tu non lo voglia davvero: allora devi solo chiedere e ti sarà dato!
Se sei pronto segui la musica, costi quel che costi.
A nove anni ho capito che il senso di tutto era in quella lieve melodia di ocarina portata dal vento a cavallo della luce.
Cosa vuoi fare da grande? Credi di poter rispondere veramente a questa domanda? Credi che quello che sarai dipende solo e soltanto da te? … Sai chi sei?
Non so chi sono. So che la mia vita si concluderà in questo posto sperduto in un imprecisato punto dell’oceano. La luce e il vento mi hanno portato qui. E la melodia. Adesso sono vicino al centro – al cerchio -, sono le anomalie che me lo dicono. Quelle, e la febbre.
Sto male da diversi giorni. In certi momenti cado addirittura preda del delirio: scotto e sono scosso da tremiti molto violenti. La musica non mi lascia mai. Gli uccelli si radunano sui rami attorno a me e mormorano incessantemente: è insopportabile. Ruoto la testa da un lato all’altro tentando di scacciare il rumore come fosse un insetto insistente.
Alle volte mi sveglio lontano dalla spiaggia, nell’entroterra, oltre la linea che separa in modo netto la sabbia candida e scintillante dal tappeto quasi-verde della vegetazione.
I quasi-ragni, anche se non osano avvicinarsi troppo a me, mi seguono emettendo i loro schiocchi lignei…
nel silenzio della chiesa, mentre i penitenti respirano piano con il capo chino, un raggio di luce fende il pulviscolo della domenica mattina e alcune panche di legno antico e tarlato scricchiolano sotto il peso dei peccati…
Ora non ho più bisogno del mondo dentro per trovare il silenzio. Non ho più bisogno del silenzio per udire la melodia. Il centro dell’isola mi attrae come un polo gravitazionale, mi risucchia i pensieri. Sono in un delirio: volo veloce sul pelo dell’acqua increspata, milioni di piccole increspature in milioni di increspature, le vedo, una per una, con infinita chiarezza. L’oceano scorre sotto di me. Vedo l’isola avvicinarsi a grande velocità all’orizzonte. Il relitto del catamarano sugli scogli a poche centinaia di metri dalla sabbia bianca. Il corpo di un uomo che arranca sulla collina, verso il cratere…
rotondo come l’oblò di una nave…
al centro del quale c’è uno specchio d’acqua, come un piccolo mare, un disco perfetto. Il volo radente mi porta lì, verso quello specchio d’acqua nel quale si riflettono mille colori, un caleidoscopio mosso dalla luce del sole…
mi colpisce le pupille trafiggendole con i suoi colori, proiettandoli dentro di me con l’arroganza che deriva da uno sconfinato potere…
Mi risveglio di soprassalto. Sono sulla spiaggia, sotto la vela che sventola placida riparandomi dal sole.
«La collina» sussurro. Il suono della mia voce, non lo sentivo da molto tempo; un brivido mi corre lungo la schiena e mi fa quasi sobbalzare. Mi sollevo a fatica sui gomiti per guardare verso il centro dell’isola. Provo contemporaneamente timore e attrazione. Tutto comincia a girare e mi sdraio nuovamente.
5.
La forza d’attrazione del centro cresce nei momenti d’incoscienza. Non riesco ad oppormi e l’isola mi sprona. Alcuni uomini necessitano di azioni più eclatanti, convincenti, per essere smossi, spinti all’azione, che poi altro non è che il loro destino. Sembra assurdo che io abbia potuto esitare dopo essere arrivato fin qui; l’uomo è una creatura complessa e misteriosa.
Un ragno fu l’agente che il fato ha mandato sulla mia strada perché io agissi, portassi a termine il mio viaggio. Uno dei quasi-ragni pelosi e violacei.
Una delle loro tecniche di caccia ai granchi è seppellirsi nella sabbia a pancia in su: restano visibili solamente le punte delle otto zampe, che affiorano appena dalla sabbia. Quando qualcosa le sfiora queste scattano come un meccanismo a molla, stringendo con una forza impressionante qualunque cosa gli si trovi nel mezzo, anche fosse il piede di un uomo… il mio piede.
Il dolore è stato indescrivibile, come un lampo di luce folgorante e improvviso. Ricordo che per primo ho sentito lo schiocco delle ossa che andavano in frantumi, pareva un fascio di rami secchi che si spezza. Poi l’onda del dolore è divampata in un rapido crescendo dal piede fino al cervello, scuotendolo. Quando ho guardato verso il basso ho visto la massa informe e sanguinolenta che era diventato il mio piede: una palla di carne dalla quale sporgevano ovunque monconi di ossa spezzate e unghie. Tutt’intorno lo spruzzo di sangue scuro macchiava la sabbia candida. Ero certo che sarei svenuto di li a pochi istanti. Lanciai un urlo tremendo. Gli uccelli spaventati si alzarono in volo cominciando a fare il loro verso, fu come se all’improvviso mi fossi trovato in mezzo ad una folla di persone borbottanti. Insieme alla voce mi salì in gola un fiotto di vomito. Fu in quel istante che cominciai a muovermi verso l’entroterra tenendo il piede – o quello che ne restava – sollevato dalla sabbia. Brancolai oltre la linea di confine della vegetazione. Il vociare degli uccelli aumentò di volume mischiandosi al mio lamento. Tutto girava e dovetti concentrami molto per riuscire a rimanere in piedi.
Non devi cadere, non devi cadere, non devi cadere… era la litania che mi rimbombava in testa mentre mi appoggiavo al tronco delle palme, alle rocce, a tutto ciò che poteva sorreggermi. Avanzavo, irresistibilmente attratto dalla collina e sospinto dal lancinante dolore. Ero ricoperto di sudore freddo, ansimavo come se stessi correndo all’impazzata, il cuore sembrava potermi rompere lo sterno e mi colava densa schiuma dalla bocca. Poi giunse come un’eco lontana una nuova consapevolezza. Più mi addentravo più il dolore al piede cambiava, vorrei dire che diveniva più sopportabile, ma non sarebbe del tutto corretto. In realtà il dolore al piede era come se divenisse più “comprensibile”. Accelerai.
Mi sembrò un viaggio interminabile, una fatica immensa, poi, sopraffatto dalla stanchezza e dalla paura, crollai privo di sensi.
6.
Non so quanto rimasi svenuto, ma quando mi svegliai il piede non mi doleva più. Era ancora una palla informe di carne e ossa, ma era come se fosse sempre stato così. Una nuova pelle lo ricopriva e stranamente non vi era nessun segno di infezione: non era né livido né arrossato. Mi guardai attorno, non ricordavo con chiarezza cosa fosse successo e cercai a fatica di far mente locale.
Ero seduto su una spiaggia di ghiaia scura di fronte allo specchio d’acqua color carta da zucchero, il disco perfetto, poco più che una grossa pozzanghera, che già avevo visto nel mio febbricitante delirio. Oltre l’anello di ghiaia scura riprendeva l’assedio della folta vegetazione, che lì aveva un colore verde-viola molto intenso.
Ero al cospetto della madre di tutte le anomalie: immerso in un silenzio assoluto, come orecchio umano non ha mai udito prima. Niente uccelli mormoranti, niente sciabordio della risacca, niente vento, niente ronzio interno. Tutto immobile, il tempo si era fermato.
Mi alzai a fatica. La ghiaia non produceva alcun rumore camminandoci sopra. Un senso di infinita quiete mi avvolse, come quando mia madre mi passava le dita tra i capelli e mi lasciavo scivolare lentamente nel sonno. Mi sdraiai accanto lo specchio d’acqua a riposare, sereno come mai prima d’allora.
Dormii.
Un attimo è un tempo infinito nel luogo dove il tempo non esiste. Dormii per un tempo infinito. Forse mi svegliai anche, contemplai la spiaggia ed il cielo riflesso nel disco d’acqua immobile. Fuori dal cratere il tempo scorreva velocemente: gli anni passavano come giorni, e i giorni erano minuti. Il sole sorgeva e tramonta in un batter d’occhio ma io non ne ero coinvolto, potevo solo osservare con attonito distacco il trascorrere dei secoli.
«Ho un compito?»
Mi sentivo parte di quel luogo come se fossi tornato a casa dopo millenni di lontananza. Gli animali si radunarono silenziosi attorno a me. Attendevano che io facessi tornare la melodia. Volevano sentire di nuovo l’ocarina cantare.
«E’ questo il mio compito?»
Passarono i secoli.
Poi cominciai a percepire il fremito nell’aria; una vibrazione senza rumore. Era ovunque: nell’acqua, sulla mia pelle, nelle piante e soprattutto nella ghiaia, anzi, farei meglio a dire nella quasi-ghiaia. So com’è la pietra pomice: leggera e tutta sforacchiata. Ne ho vista e maneggiata e posso affermare che quella non era affatto pietra pomice. Tenendone una manciata in pugno la sentivo vibrare. Quel fremito era ad un livello profondo, oltre il senso del tatto; un’energia potente.
Affondai la mano nella ghiaia, ne raccolsi manciate che lasciai scorrere tra le dita facendola cadere a pioggia nell’acqua e i sassolini, prima di affondare, esitavano un istante sulla superficie, poi si immergevano ondeggiando lentamente. Più ne tenevo in pugno più la vibrazione era intensa. Ripetei questi gesti infinite volte; ero in estasi. Continuai così per un tempo infinito.
Un sasso, forse per la forma o la particolare vibrazione, come un lieve pizzicore, una sorta di solletico, mi richiamò dall’incanto. Lo sollevai davanti al volto e lo misi lentamente a fuoco tenendolo tra le dita. Ne venni letteralmente rapito. Sembra un miracolo che potesse esistere qualcosa di tale bellezza. Tenendolo in una mano, senza poter staccare lo sguardo da lui, pettinai il fondo ghiaioso con le dita dell’altra fino a che non trovai ciò che cercavo: non so dire come riconobbi l’altro sasso tra migliaia, ma fu così. Appena lo estrassi dall’acqua si originò una potente forza d’attrazione; i due sassi smaniavano per unirsi, come amanti separati per troppo, troppo tempo. La forza era grande, e si accresceva con la vicinanza, fino a divenire indomabile. L’unione poi, fu un atto di tale perfezione da non poter essere descritto. I due sassi erano divenuti uno, e l’incastro non lasciava alcun segno di giunzione, come se le parti non fossero mai state divise…
non puoi ancora vedere il disegno… ma sai di farne parte…
L’unica cosa che poteva interrompere questa fusione, scoprii essere l’acqua: dopo pochi istanti di immersione, infatti, i sassi si dividevano nuovamente, producendo un lieve schiocco e una bollicina, che saliva stancamente in superficie, e un profondo senso di infelicità mi stringeva la gola e lo stomaco. Li riunii immediatamente: «Mai più… non lo farò mai più!» La mia voce giunse da lontano, dal passato.
dove vai? Qual è il tuo progetto? Devi solo agire… basta pensare. Agisci!
Rastrellai la ghiaia e ne estrassi altri, che unii all’agglomerato principale, riposto lontano dall’acqua, al sicuro.
Quale fosse lo scopo di tutto ciò non lo sapevo. E proprio come quando ero salpato dal solitario porticciolo, anche allora non fui distratto da false mete: agii per agire.
Unii il pietrisco senza posa e la musica fluttuò nuovamente nell’aria: raggiunsi una nuova dimensione dell’estasi. Mi muoveva l’appagamento di quei gesti, ogni qual volta univo un nuovo sasso agli altri, ogni qual volta sentivo la potenza dell’attrazione scorrermi dentro. Percepivo con lui, attraverso lui, ero parte di quel costrutto.
sei nel flusso, in un raggio di luce che cattura i colori e li porta dentro… una vela sospinta dal vento che è musica… ridare forma all’energia; il tuo compito…
Una forza di sconosciuta, indescrivibile potenza attraeva me e i sassi: una volontà che mi entrava dentro a confondersi con la mia. Era come se due coscienze si fossero fuse in una usando il mio corpo come crogiolo per poter agire di concerto.
7.
I secoli scorrono come giorni al di fuori del cerchio, al di là del centro dell’isola. Il vorticare del sole è talmente rapido che la luce domina sulle tenebre, che non esistono più; io ora sono in un giorno perenne…
cosa sei? un’entità che abita un corpo? sei il tuo corpo? la materia ti da vita e anima…
La vibrazione va cambiando man mano che procedo nella mia febbrile opera. Non è più costante, oscilla: ha assunto un moto ondulatorio irregolare.
Il mio smanioso cercare, pescare ed unire ha dato vita ad una concrezione enorme… e leggera: il suo peso non è mai variato da quello di un unico sassolino. A differenza dei volumi, i pesi non si sono sommati.
Più la struttura diviene grande e complessa meno è assoggettata alla forza di gravità. La posso maneggiare con facilità, senza alcuno sforzo, come se la spostassi e la ruotassi con il solo pensiero, con la volontà.
Sono innamorato di questo oggetto, della sua forma e del suo canto. La vibrazione irregolare è mutata in una modulazione armonica, pare di ascoltare un’orchestra che accorda. L’ocarina è solo una piccola, infinitesima parte della fonosfera. Di tanto in tanto si intuiscono frammenti, brani magnifici, da bloccare il respiro tanta è la loro bellezza; fanno vibrare l’anima. Continuo a cercare nuovi sassi da unire a compimento della struttura, pervaso da una frenesia gioiosa.
Sono lo spettatore seduto nel magnifico teatro, l’orchestra sta per iniziare l’esecuzione del concerto. Sono consapevole che solo io, ora, posso contribuire a che tutto questo abbia inizio. Sono parte di questa cosa monumentale e tutte le opere dell’uomo, della natura, dell’universo, portano qui. Esse sono parti di quanto sta per avvenire: sono le note sulla partitura, le pietre della piramide, gli atomi della carne, del sangue, delle ossa, i pianeti e le stelle dell’universo, i secondi del tempo, i millimetri dello spazio…
Vengo attorniato dalle creature dell’isola, mi circondano, si stringono a me emettendo i loro suoni che si uniscono al canto della struttura. Anch’io canto con loro questa melodia della creazione…
sei salito sul palco e prendi posto tra gli orchestrali… stai suonando la tua musica…
Il centro, sono al centro del cratere che invece di rigettare materia ed energia fa l’inverso, con infinita potenza e determinazione.
La struttura non tocca più il suolo, galleggia sopra il pelo dell’acqua, anch’essa nel centro, e comincia a ruotare. Sta assumendo la forma di una sfera gigantesca e la mia ammirazione per l’armonia e la perfezione è infinita. La mia nuova coscienza mi parla di bellezze che non avrei mai potuto cogliere prima, mi pone in ascolto di me stesso, del suono delle forme, del respiro del tutto.
La musica è ora maestosa sinfonia.
Non ci sono più sassi sulla spiaggia. C’è sabbia bianca e sottile come borotalco.
Tutte le forme di vita presenti sull’isola si sono radunate e ruotano intorno a me come fossero il corpo di un ciclone. Non sono più entità discrete, nemmeno nella materia. Accelerano e si fondono creando un cono vorticante al centro del quale ci sono io… o il quasi-io. Unisco le ultime pietre alla sfera galleggiante che ora ha le dimensioni di una montagna, proprio sopra di me, e vortica velocemente in sincronia con il cono che m’avvolge.
E’ come un orgasmo. Unisco l’ultimo sasso e la sinfonia e la luce mi frammentano: scindono il mio involucro i cui atomi si proiettano finalmente liberi a unirsi alle pareti turbinanti del cono di materia che mi circonda possente.
La sfera si solleva e, attraverso il cono, aspira l’acqua al suo interno. Allora il vortice di vita, del quale faccio parte, si tuffa nella sfera, risucchiato anch’esso nel flusso ascendente d’acqua.
La musica è il canto della creazione.
Il tutto assume coscienza, volontà creativa, e si proietta nell’universo, trasportato dal solo pensiero.
“Io sono luce, e porto la vita!”